In una recente controversia un imprenditore/datore di lavoro è stato ritenuto penalmente responsabile per l’infortunio occorso al lavoratore, nonostante:

a) questi avesse partecipato poco prima ad una specifica esercitazione organizzata dalla società;
b) fossero stati predisposti alcuni presidi di sicurezza;
c) fosse stato nominato un R.S.P.P.

Il caso è stato deciso dalla Corte di Cassazione con la sentenza 6 novembre 2018, n. 50000.

Ad essere condannato è stato il vice presidente del Consiglio di amministrazione della società, in quanto titolare di una specifica delega in ambito di sicurezza e igiene sul lavoro, perché ritenuto responsabile del delitto di lesioni personali colpose gravi subite da un proprio dipendente.

La vicenda, in particolare, riguardava un’azienda che si occupa di lavorazione e forgiatura di elementi in acciaio nel cui ambito ad appositi lavoratori qualificati erano state attribuite mansioni consistenti nell’operare anche su impianti dotati di parti esposte ad elevate temperature (zone a caldo o forni).

La vittima, infatti, subiva l’incidente a causa del non corretto utilizzo di una “passerella” che comportava il contatto della gamba del lavoratore con la parte superiore di un anello d’acciaio da temprare con la conseguenza che questi si ustionava gravemente derivandone una malattia del corpo superiore a quaranta giorni.

Secondo i Supremi giudici, la colpa è consistita nella negligenza, imprudenza ed imperizia aggravata dalla violazione delle norme in materia di igiene e sicurezza sul lavoro ed, in particolare, dalla mancata adozione di adeguati dispositivi antinfortunistici utili a prevenire il rischio di ustioni ai lavoratori attraverso la predisposizione di idonei dispositivi di protezione individuale (Vedi art. 41, 1° e 2° comma c.p., art. 590, 1°, 2° e 3° comma c.p., artt. 81, comma 1, 77 commi 3 e 4. lettera f), in relazione all’art. 87, comma 2, lettera d) del d.lgs. 81/2008).

L’imputato nel corso del giudizio ha cercato di far valere alcune circostanze potenzialmente valide ad escludere o ridurre la propria responsabilità come:

  1. l’aver predisposto una specifica squadra di lavoratori particolarmente esperti per quelle mansioni, della quale faceva parte anche la persona offesa;
  2. l’aver effettuato le prove necessarie ad individuare ogni possibile rischio;
  3. l’aver evidenziato, durante le varie valutazioni, il pericolo del possibile contatto della gamba del lavoratore provvedendo all’adozione di una passerella;
  4. l’aver adeguatamente formato tutti i lavoratori del gruppo allo svolgimento delle specifiche lavorazioni;
  5. l’aver effettuato, il giorno stesso dell’infortunio, una prova “a freddo” in cui il lavoratore aveva di fatto utilizzato proprio quella passerella

Nonostante l’adozione di questi presidi, i Giudici di Palazzo Cavour hanno ritenuto che il datore di lavoro fosse inadempiente rispetto agli obblighi di predisposizione delle misure di sicurezza e di vigilanza sul funzionamento delle stesse affermandone la penale responsabilità.

Tale obbligo, come noto, trova la sua principale fonte nell’art. 2087 c.c. che “impone al datore di lavoro un obbligo generico di disposizione di tutte le misure necessarie per prevenire eventuali rischi, anche se non esplicitamente richiamate da norme particolari che prevedono reati autonomi”.

Seppur risulti che la Corte sia consapevole di come queste disposizioni non possano essere interpretate nel senso che “il datore di lavoro debba creare un ambiente di lavorativo <<a rischio zero>>” gli stessi Giudici ritengono di precisare che lo stesso datore deve comunque adottare tutte le misure che “nel caso concreto” e alla “specifica lavorazione” risultino idonee.

Non solo. Il Collegio coglie l’occasione per ribadire – se si vuole con maggior vigore rispetto al passato – quanto affermato con i precedenti approdi giurisprudenziali con i quali si è delineata la sussistenza in capo al datore di lavoro della titolarità di una posizione di garanzia da cui discende “l’obbligo non solo di disporre tutte le misure antinfortunistiche, ma anche quello di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte di eventuale preposti e dei lavoratori, perché garante dell’incolumità fisica di questi ultimi, obbligo che non viene meno neppure con la nomina del responsabile di servizio di prevenzione e protezione, che ha funzione diretta a supportare e non a sostituire il datore di lavoro”.

Ciò che rileva però è soprattutto quello che la Corte non dice, cioè la possibilità che alla causazione dell’incidente possa aver inciso, stante i presidi comunque posti in essere dall’azienda, la colpa concorrente del lavoratore almeno in minima parte. La stessa, infatti, esclude questo profilo di responsabilità quando afferma che “il comportamento del lavoratore può rilevare quale limite alla responsabilità del datore di lavoro solo quando risulti abnorme, eccezionale o comunque esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle precise direttive ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile, sicché tra gli obblighi del datore di lavoro è ricompreso il dovere di prevenire l’eventuale comportamento negligente o imprudente del lavoratore”.

Si rammenta, infatti, che già in passato (cfr. Cass., sez. IV, 26 gennaio 2011, n. 2606) la Suprema Corte aveva affermato come nel campo della sicurezza del lavoro il nesso di causalità può essere escluso solo nell’ipotesi di comportamento “abnorme” del lavoratore. Precisando, in quell’occasione, che per abnormità deve intendersi “il comportamento che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro”. Inoltre quella stessa pronuncia afferma come “l’eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti aventi l’obbligo di sicurezza che si siano comunque resi responsabili della violazione di prescrizione in materia infortunistica”.

Alla luce di tali assunti si può ritenere che in ipotesi di incidente sul lavoro il Datore del Lavoro possa vedersi attinto da un ricorso generalizzato al rimedio attuato dal diritto penale.

Sarebbe quindi sempre più urgente cercare, in via preventiva, di predisporre un efficace sistema di deleghe di funzioni, una corretta e aggiornata adozione del Documento di Valutazioni dei Rischi e di agire al fine di creare una reale e concreta integrazione con i presidi necessari ad essere conformi alla normativa relativa alla Responsabilità da reato degli enti, di cui al D.lgs. n. 231 del 2001, al fine di riuscire ad evitare almeno possibili e pesanti sanzioni a carico della Società in termini di misure pecuniarie e interdittive.

L’adozione di un Modello di Organizzazione Gestione e Controllo e la sua efficace adozione, anche in conformità dell’art. 30 dello stesso D.lgs. 81/2008, diviene dunque un’occasione per l’imprenditore collettivo di dotarsi degli strumenti idonei ad evitare un’imputazione a titolo di “colpa in organizzazione” o mitigarne le pregiudizievoli conseguenze.